Il tempo-Covid 19 permette – tra le molte altre cose che invece limita – di tessere relazioni di riflessione usando ritmi meno convulsi. In questo senso abbiamo approfittato di Massimiliano Colombi, il sociologo che ha collaborato con noi nel progetto “Una pedagogia per il volontariato” svoltosi quasi un anno fa a Jesi nell’ambito del Festival Volontarja, ponendogli alcune domande, avendo come centro di interesse la formazione per il Terzo Settore. Colombi, attraverso il suo ambito professionale ha maturato una particolare competenza nel settore del volontariato e nelle dinamiche di formazione ad esso connesse, ed è docente tra l’altro presso l’ Istituto Teologico Marchigiano.
- Prof. Colombi, che cosa pensa di questo tempo-Covid 19?
Abitiamo un tempo che spinge a ritrovarsi con modalità inedite, e in questo il mondo del volontariato dimostra una tenacia incredibile, un valore aggiunto prezioso per le nostre comunità. Abitare con consapevolezza questo tempo significa lasciarsi interrogare dal “durante”, senza cedere ad una logica del “prima” e del “dopo”. Anche perché molti segnali ci dicono che il cosiddetto “dopo”, ad esempio la “fase 2”, assomiglierà molto di più al “durante” che stiamo vivendo, piuttosto che al “prima” che abbiamo vissuto.
In questa prospettiva si può maturare una postura di “fronteggiamento”, alternativa alla fuga. Occorre dirsi reciprocamente “chi sei?” e soprattutto “ci sei?”. In altre parole può voler dire impegnarsi in un lavoro di ristrutturazione della convivenza umana, avendo una preoccupazione costante per la cura della propria vita in connessione con le vite altre e di altri.
- Siamo in una crisi dai contorni e dagli orizzonti particolarmente frastagliati e nebulosi, dunque?
Credo di sì, non conosciamo tutto e siamo obbligati a non smettere di conoscere. Più conosciamo e più siamo chiamati ad accettare la parzialità . Abbiamo poche informazioni solide e tante incertezze. Abbiamo però una certezza: non siamo soli e possiamo sostenerci nella ricerca. Come ci insegna Arturo Paoli, solo “camminando s’apre cammino”. E qui vorrei introdurre un elemento importante: la crisi non seleziona sempre i migliori, ma spesso e volentieri resiste chi dispone di una rendita di posizione. Al contrario le realtà più innovative e più fragili, maggiormente esposte alle criticità rischiano di soccombere. Occorre aver cura dei germogli e non solo delle piante secolari.
In questo senso quanto diventa importante attivare una narrazione della esperienza da cui poter apprendere e che consenta di sviluppare un humus utile per far crescere nuove piante, nuove realtà del volontariato, inedite forme di convivenza. La narrazione può essere fatta da chiunque ha a cuore e ha cura delle persone e delle comunità, che parta dal radicamento nella storia feriale, in grado di porre attenzione a ciò che accade a livello micro (livello personale), macro (la Società) ma anche meso (la Comunità). È necessario un lavoro da “cercatori d’oro” rispetto a disponibilità individuali e comunitarie, per poterle riconoscere e valorizzare.
- Se dovesse descrivere con una metafora il momento che stiamo vivendo…?
Siamo in Esodo, come scrive il pedagogista Ivo Lizzola, non da soli ma in Carovana, legati gli uni agli altri. Un grandissimo paradosso. Non è vero che siamo “sospesi” e in attesa di una ripartenza. Nessuno di noi è stato congelato e ognuno continua a vivere. Restiamo in viaggio. Alcune terre assomiglieranno alle solite terre, altre saranno invece terre insolite. Alcune mappe ci aiuteranno a proseguire il viaggio, mentre altre, a fronte dei cambiamenti intercorsi, ci porteranno fuori strada. Di alcuni territori dovremo disegnare le mappe, saremo esploratori. Non siamo in pausa. Stiamo vivendo, perché siamo vivi. Per questo sentiamo il dolore delle tante morti senza commiato, avvertiamo la paura per un tempo incerto e conserviamo la fiducia che non siamo all’ultima pagina. Continuare ad abitare significa continuare a vivere.